“Un’investigazione sull’emblematico caso del falsario Alceo Dossena”
Parte seconda
Con l’ausilio di una spia dell’OVRA, nientemeno dunque che della polizia segreta fascista, si imputò al Dossena l’accusa, nell’eseguire un ritratto di Benito Mussolini – a lui commissionato dagli antiquari stessi – di aver imprecato contro la scultura in corso d’opera. Le pesanti accuse furono dunque di vilipendio alla figura del Duce e di antifascismo. Nulla, come si vede, che avesse a che fare con l’attività di truffatore e falsario. Fu l’intervento del potente amico e gerarca Roberto Farinacci, guarda caso suo grande collezionista, a salvare il Dossena dai rischi del processo, svoltosi tra la fine del 1928 e l’inizio del 1929. Guarda caso, collezionista delle sue opere era anche l’avvocato Carlo Ansaldi, che ne prese le difese. Tali episodi, data l’ampia eco mediatica, costituirono per il Dossena una sorta di beffarda, surreale vendetta verso i suoi presunti sfruttatori – in realtà spregiudicati, avidi committenti di cui fu lucidamente complice -, determinando per lui una tanto inattesa quanto paradossale apoteosi. Balzò alla notorietà mondiale dagli oscuri segreti della sua fucina fraudolenta. L’improvvisa fama dovuta allo scandalo planetario, supportata da un sistema di vero e proprio marketing orchestrato proprio dai più truffati, cioè da speculatori americani, culminò nella singolare, solenne asta tenutasi a New York nel 1933; una sorta di summa, didascalica retrospettiva del mirabolante percorso del Dossena e dei suoi “falsi d’autore”; dalle imitazioni archeologiche a quelle medievali e rinascimentali, compreso un busto di Flora del “Bernini” (Tavola 20 del citato Catalogo d’Asta). Aldilà degli intenti celebrativi, si trattò anche di un’operazione di riciclaggio del falsario, altrimenti compromesso, come artista autonomo. Un equilibrismo al limite dell’opportunismo, reso possibile da quella tipica ignoranza estetica tutta americana, forse in parte voluta, lampante nella entusiastica nota introduttiva di A.M. Frankfurter al bellissimo catalogo newyorkese, dove si riconosce nell’Alceo italico “one of the strangest talents in the history of art”. “Dossena was not an imitator in the meaning of the term, as it is commonly understood, for he never actually copied a single object”. La sua opera “is original in the sense that it is subjectively of his own creation”.
Una circonlocuzione banale, linguisticamente debole ed illogica. Tale acrobazia denota il non riconoscere la ben nota, ininterrotta, plurisecolare serie di formidabili restauratori e falsari italiani, più o meno palesatisi come tali, di cui peraltro giganteggiavano ancora sul mercato antiquario del primo Novecento, attraverso le loro straordinarie falsificazioni ed i falsi in stile archeologico, le personalità di Carlo Albacini (Roma 1734 – 1816) e Bartolomeo Cavaceppi (Roma 1716 – 1799), artisti che, a differenza del nostro, seppero peraltro esprimersi egregiamente anche attraverso i canoni loro contemporanei, secondo lo stile del nascente Neoclassicismo europeo. Il Dossena appartiene ad una ineguagliata tradizione di eccellenza nel falso, non rappresenta un fenomeno “strano” e tantomeno unico. Basti ricordare le epiche truffe realizzate con le opere dei pittori senesi Icilio Federico Joni ed Umberto Giunti, il primo, una sorta di reincarnazione di Ambrogio Lorenzetti, il secondo che dipingeva alla Botticelli…meglio di Botticelli! L’ultima parte della feconda vita artistica del nostro famigerato falsario, che purtroppo non si salvò da una vecchiaia di solitudine ed indigenza, sulla scia dello scandalo e delle celebrazioni d’oltreoceano, si rivelò una stagione colma di commissioni, quasi tutte in stile o comunque di un chiaro eclettismo, che finalmente lo indussero ad un gesto tanto ovvio quanto per lui inusitato: la firma. Se infatti fino a quel momento l’assoluto anonimato e l’inganno sul vero artefice erano stati la cifra costante dei sui formidabili falsi, ora egli prese un gusto quasi maniacale nell’apporre aere perennius il proprio nome, con rinnovato orgoglio. Una firma da analizzare, da capire in chiave anzitutto psicologica; la firma di chi fino ad allora aveva tratto il proprio successo esclusivamente da una sostituzione di persona, da un’identità immaginaria: scolpita sul marmo, vergata sull’argilla quasi sempre in corsivo – rari sono i casi di sue firme in lapidario romano, forse perché abusò proprio di quello stile di caratteri nei falsi più ambiziosi -, essa campeggia sotto sontuose Madonne con il Bambino donatelliane inducendo una sorprendente discronia, un’incommensurabilità degli stili, quello della firma e quello della scultura, che tuttavia ora nascono insieme ed esistono l’uno in funzione dell’altro. Egli non solo prese a firmarsi sistematicamente ma “autenticò” come proprie tutte le giacenze di bottega, altrimenti pronte ad inaugurare la propria cupa, bieca esistenza di falsi. In quel tempo, con ogni probabilità, sue firme apocrife furono prudentemente apposte dai legittimi – e anche frodati – proprietari di marmi quattrocenteschi e medievali rivelatisi del Dossena, o suoi presunti tali, ora per avvalorarle come opere dell’ormai celeberrimo falsario, ora per evitare a monte i molti possibili guai derivanti dal possesso di un’opera fraudolenta.
Non è escluso, ironia della sorte, che da qualche collezionista o da mercanti particolarmente prudenti – ne esistono – sia stata apposta la firma “Alceo Dossena” su qualche marmo magari antico e autentico ma di provenienza ignota, nel timore potesse essere contestato come falso.
Escluse la dimessa personale romana già nel 1931, sul cui catalogo di piccola tipografia compare una nota introduttiva di Elpidio Piccoli, assolutoria e dunque essenzialmente riduttiva rispetto alle doti del Dossena, ancora stancamente rappresentato come un ingenuo ed una vittima innocente, e la retrospettiva del 1956, sempre a Roma, è interessante constatare un sostanziale silenzio successivo alla morte del grande falsario, avvenuta nel 1937. Silenzio accompagnato tuttavia da un crescente interesse di mercato verso le sue seducenti creazioni. Interessante constatare come egli divida i propri esegeti, tutt’oggi, rispetto al giudizio sul valore della sua arte e, di traverso, sulla sua complessa personalità. Lo studio più completo è della storica dell’arte Lidia Azzolini, che ha il merito di averne valorizzato l’opera e delineato con passione il carattere, pur forse con qualche eccesso di politicamente corretto – ed esteticamente scorretto – sin dal titolo del suo volume, Alceo Dossena. L’arte di un grande “falsario” (Del Miglio 2004), nella forzosa rivalutazione del falsario come artista originale. Ma come si può mettere tra virgolette l’espressione falsario rispetto ad Alceo Dossena? Simile tono a quello della Azzolini, ma ancor più celebrativo ed assolutorio, troviamo nell’avvincente libro di Marco Horak Alceo Dossena tra mito e realtà: vita e opere di un genio (Lir Edizioni 2016), dove attraverso puntuali richiami ad autori come Max Jacob Friedländer e Frank Arnau viene segnato uno spazio di tematizzazione teorica oltre che storico-critica del problema del falso e della falsificazione nell’arte. Lo stesso Horak cita altri interpreti di tutt’altra opinione rispetto all’effettiva caratura artistica del Dossena; oltre al già ricordato Andrea De Marchi, vengono evocati due illustrissimi la cui posizione deve essere qui considerata. Federico Zeri, tutt’ora il più autorevole storico dell’arte italiana, reputa il nostro un eccellente artigiano ed un brigante. L’autore della monumentale monografia di riferimento su Donatello ed uno dei più raffinati conoscitori del Quattrocento fiorentino, del tardo Medioevo e del Rinascimento italiano, nonché direttore, nell’ordine, del Victoria and Albert Museum, del British Museum di Londra e del dipartimento di pittura del Metropolitan Museum di New York, Sir John Wyndham Pope-Hennessy, definì in maniera caustica le principali caratteristiche di Dossena con insuperata, direi insuperabile sintesi: “untalented and meretiricious”.
Una spiccata vanità non corrisposta da un’originalità del talento, un’ambizione insaziabile unita ad una creatività modesta ma formidabile nell’imitazione dello stile, generarono il mostrum del falso Alceo Dossena. Il suo narcisismo debordante, di cui l’attitudine simulatoria si rivelò il poderoso correlato naturale, venne in lui sublimato attraverso l’artificio di un’eccezionale serie di finzioni, tese a confermare una genialità illusoria. Una grandezza puramente simulata ma priva di fondamento spirituale, inautentica.
Fondamento spirituale intaccato, quasi annichilito, non tanto dall’essersi reso uno strumento nelle mani di truffatori, magicamente soggiogato dai demoni dei grandi del passato, ma dall’ aver usato la Bellezza canonica per fini criminali.
Articolo di Leonardo Scarfò
Fonti
Foto Alceo Dossena: Walter Lusetti “Alceo Dossena scultore”, Roma, De Luca 1955.