“Un’investigazione sull’emblematico caso del falsario Alceo Dossena”
Fatto curioso: i hrönir di secondo e di terzo grado – i hrönir derivati da un altro hrön; quelli derivati da un hrön di un hrön – esagerano le aberrazioni del hrön iniziale; quelli di quinto ne sono quasi privi; quelli di nono, si confondono con quelli di secondo; quelli di undicesimo, hanno la purezza di linee non posseduta nemmeno dall’originale.”
Jorge Luis Borges
Tlön, Uqbar, Orbis Tertius
Nella vulgata storico-artistica divenuta cultura ufficiale, la controversa figura dello scultore Alceo Dossena (Cremona 1878 – Roma 1937) rappresenta, con il suo strascico di vicissitudini collezionistiche e giudiziarie, una pietra miliare nel complesso rapporto fra “originale” ed “imitazione” nell’arte.
Il massimo dell’originalità che egli seppe raggiungere furono formidabili falsi; imitazioni fraudolente non copiate integralmente da opere antiche note ma composte per citazioni, estrapolazioni, allusioni magistrali.
Garbato nelle creazioni conformi ai canoni suoi contemporanei, sospese tra simbolismo, liberty e neo-rinascimento, egli si rivelò titanico nelle realizzazioni in stile, formate “in the spirit of the dead past and his masters” (Sculptures by Alceo Dossena, to be sold at public auction, National Art Galleries, inc., Rose Room, Hotel Plaza, New York 1933, dalla conclusione del Foreword di A.M. Frankfurter).
Il Dossena, puer aeternus fragile al punto di lasciarsi corrompere da truffatori di professione rendendosene complice per molti anni, si esaltò nella propria smisurata, naturale capacità di emulazione tanto da illudersi di eguagliare i Maestri che evocava.
Era talmente inautentico e attore da saper impersonare con la stessa disinvoltura il coroplasta etrusco, il marmista greco arcaico, i giganti della Scuola Senese del Due-Trecento e della mitica scultura fiorentina del Quattrocento. La sostanziale tabula rasa del proprio personale talento era un deserto d’immaginazione dal quale emergevano, alla maniera di inusitati miraggi, poderosi fantasmi ingannatori. Un humus millenario, fertilissimo e necessariamente amorfo, sul quale proliferava ogni sorta di piante da fiore. Vuoti pieni di finzioni. Effimere profusioni.
Un genio? Un sublime artigiano opportunista? Un criminale dell’arte? Egli fu tutte e tre le cose.
Eccelse non tanto nella pura imitazione, scivolando sempre su qualche dettaglio che oggi ne tradisce comunque l’appartenenza ad una cultura tardo-ottocentesca, quanto nella patinatura delle proprie opere. Sapeva creare finti segni del tempo imposti a fondo nei marmi prima della levigatura definitiva, apparentemente incrostati e stratificati nel modo più naturale; nelle porzioni meno rifinite, nei dettagli e nei meandri più nascosti.
Il fatto che egli fosse anche valente restauratore non è elemento trascurabile. Così come non è trascurabile, né moralmente irrilevante, il passaggio talvolta impalpabile tra restauro e falsificazione, tra restauratore e falsario. Incorporare il tempo mai trascorso nell’opera mai creata davvero rimane un’operazione negromantica; essa genera un falso (quasi) perfetto. Paradossalmente, soprattutto se la tecnica imitativa risulta impeccabile ed il materiale è magari antico, la natura del falso resta riconoscibile più attraverso l’unico tratto dello stile che non da analisi di laboratorio.
Il Dossena, come tutti i suoi valenti contemporanei, possedeva un mestiere straordinario; era l’obbligo e la precondizione imprescindibile, sacrosanta, di ogni pratica dell’arte.
Passato a Cremona dalla Scuola di Arti e Mestieri “Ala Pulzone”, come decoratore e scalpellino, a marmista presso la bottega di Alessandro Monti, ricevette da subito buon riscontro di commissioni: arte funeraria, ritratti, figurazioni ornamentali per architetture di pregio. Più cercava di metterci del proprio, tuttavia, meno riusciva l’opera. Più si spingeva in creazioni in stile, migliore era il risultato. Non si tratta di un dato secondario. Il mancato riconoscimento come personalità artistica autonoma di rilievo e l’ostracismo dell’ambiente artistico contemporaneo, date in lui un’indomabile ambizione ed una spiccata vanità, non scevre da arroganza, da atteggiamenti di derisione o di sfida, provocatori e vendicativi verso chi doveva o poteva giudicarlo – come psicoanalisti si direbbe che tali inclinazioni fossero inconsci strumenti di difesa -, lo fecero rapidamente tralignare verso il piacere dell’inganno.
La cocente frustrazione come genio autentico costituì in lui l’elemento propulsivo verso l’istinto della più ambiziosa falsificazione: creare come un antico senza essere antico. Creare senza creare. Essere senza essere. Un dramma Zen, a ben vedere.
Suo figlio illegittimo e fedele collaboratore di bottega Walter Lusetti, pur restituendoci una incredibile lettura “agiografica” del padre, dipinto come bisognoso, ignaro, sfruttato, soggiogato, ricattato e soprattutto innocente capro espiatorio di biechi profittatori, ammette tuttavia che fin da subito, ben prima di trasferirsi a Roma, numerose opere del Dossena erano già passate in Francia e in Svizzera (Si veda in proposito il volumetto Dossena, De Luca Editore, Roma 1955, Introduzione di Walter Lusetti, pp.11-13).
Troppe varianti sul pittoresco – o per meglio dire picaresco -aneddoto tradizionale rendono oscuri i veri inizi della fiorente attività del prolifico Alceo e della sua alacre bottega romana; la storia della finta Madonna gotica comprata dal grande antiquario Fasoli all’osteria, frutto di una sorta di baratto dell’affamato Dossena con l’oste, fa sorridere. Di fatto antiquari di prima grandezza, tra cui Alfredo Pallesi, allievo di Stefano Bardini, mostro sacro dell’antiquariato del Novecento, imperniarono i loro lucrosi traffici di opere false – o falsificate – sull’abilità del Dossena, saturando in pochi, irripetibili anni, collezioni e musei di tutto il mondo con marmi, terrecotte e legni intagliati straordinari.
Si trattava di truffe architettate nei minimi dettagli; emblematica la cessione del “Sepolcro Savelli”, un fantasmagorico monumento funebre quattrocentesco, totalmente fasullo, avallato persino da finti documenti d’archivio nobiliare, firmati da Mino da Fiesole in persona.
Qualcuno, oltreoceano, cioè là dove erano approdati la gran parte dei falsi, alla fine iniziò ad insospettirsi per questo inarrestabile profluvio di capolavori. Autonoma o pilotata che fosse tale scoperta, forse cogliendo un’aura misteriosamente comune a tanti inediti masterpieces delle epoche più disparate, forse perché si era superato ogni ragionevole limite all’imbroglio e la situazione era sfuggita di mano a qualcuno, o perché troppe e troppo articolate e confliggenti erano ormai le reti criminali coinvolte, essa segnò un punto di non ritorno nella vita e nell’opera del falsario.
L’esperto e critico d’arte H.W. Parsons, prima attraverso l’agenzia americana United Press, poi con un’intervista ad Alceo Dossena stesso, sul numero del primo Dicembre del 1928 di Art News, prontamente amplificata dal Corriere della Sera, fece esplodere il colossale scandalo. Quei capolavori in stile antico erano tutte opere false e, per giunta, del medesimo autore.
Da subito il falsario si dichiarò innocente, sottopagato, truffato lui per primo. Sostenne da allora e per sempre, a torto ed impunemente, come giustamente si rammarica Andrea De Marchi, che lui aveva sempre inventato e mai copiato. Un po’ come quando oggi gli assassini, spalleggiati da avvocati che si affrettano a richiedere una perizia psichiatrica, si fingono folli per essere riconosciuti incapaci di intendere e di volere.
Egli non sapeva delle truffe. I numerosi committenti di quei falsi, realizzati profitti stratosferici, arrivando a dichiarare che le opere arrivavano direttamente dai depositi della Real Casa e dai Musei Nazionali, per necessità dello Stato italiano di far cassa, non tardarono a vendicarsi sul Dossena. In modo piuttosto bizzarro, tuttavia. La gran parte dei truffati, non di rado imbrogliatisi anche l’uno con l’altro, grandi antiquari, noti collezionisti, esperti famosi, mediatori importanti, è comprensibile, non procedettero contro di lui, poiché ciò li avrebbe non solo posti in ridicolo, screditandoli ulteriormente, ma avrebbe innescato una serie incontrollabile di pericolose reazioni a catena nella ormai capillare rete di mercato che si era creata. Senza contare l’atto di autodenuncia implicito nel chiamare in causa il Dossena come falsario di fiducia.
Non si può escludere, peraltro, che egli avesse redatto un meticoloso archivio della gran parte delle proprie creazioni, assecondando così non solo l’inconsciamente irrefrenabile impulso a confessare ma anche, più furbescamente, creando una possibile, micidiale arma di ricatto. Così, il consesso degli antiquari scatenò contro il Dossena una trappola giudiziaria che poteva essere ben più pericolosa di un’accusa per concorso in truffa.
Fine prima parte
Articolo di Leonardo Scarfò
Fonti
Foto Mater Dulcissima: Lidia Azzolini, “Alceo Dossena – L’arte di un grande “falsario” “, Cremona, Del Miglio 2004.
Foto Alceo Dossena: Walter Lusetti “Alceo Dossena scultore”, Roma, De Luca 1955.