“La responsabilità dello Stato tra civiltà etica e giuridica

Il carcere è un luogo alieno alla collettività, mentre invece dovrebbe essere una dimensione in cui la collettività si riconosce e riconosce se stessa in una fase particolare: quella della espiazione.

Le carceri in letteratura sono sempre state descritte o come luoghi di penitenza massima con indicibili sofferenze per i condannati, o luoghi assoluti rispetto alla società civile, specchio di una perfezione quasi maniacale nell’infliggere la pena.

Le carceri sono state anche luoghi in cui venivano rinchiusi i dissidenti e prigionieri di guerra.

Luoghi comunque lontani al sentire della persona integrata.

In questa ottica ognuno di noi pensa di sapere cosa sono le carceri ma in realtà non lo sa sino in fondo. Non sa sopratutto cosa dovrebbero essere in un Paese civile e democratico.

Certo non un luogo in cui tutto è possibile e dove i reclusi perdono i loro diritti.

Ma ancora oggi nei commenti delle persone si avverte questo; il carcere, come dimensione aliena, rispetto alla collettività civile.

Come è il carcere lo sanno coloro che hanno studiato diritto (ma non tutti) e coloro che in qualche misura si sono occupati di detenuti; lo sanno gli operatori penitenziari, lo sanno le famiglie e i figli dei reclusi e lo sanno i diretti interessati.

Il carcere è un luogo in cui la società (nel rispetto dei dettami normativi sostanziali e processuali) tiene separati da se stessa dei soggetti condannati ad una pena detentiva o collocati in applicazione di una misura cautelare.

Ciò perché deve assolvere fondamentalmente due funzioni per i detenuti: quella di espiazione di una pena e quella di misura di contenimento per esigenze cautelari.

Nel secondo caso è una eccezione che deve essere ben valutata e la sua applicazione deve avvenire sempre nel rispetto delle leggi vigenti.

Nel primo caso il carcere è il luogo ove un imputato condannato ad una pena definitiva è recluso in ossequio all’art. 27 Cost. che recita che la detenzione deve tendere alla rieducazione del soggetto in questione.

Rieducazione che ha il fine principale di ricondurre nella collettività e nella società civile all’esito della espiazione, un soggetto in grado di rapportarsi ad essa senza commettere altri reati.

La cosa che sfugge ai più (ai non addetti ai lavori in modo particolare) è che nel momento in cui lo Stato prende in carico un detenuto sia quale soggetto sottoposto a misura cautelare sia quale soggetto che deve espiare una pena detentiva definitiva, lo Stato è responsabile della persona che ha ospitato all’interno dell’istituto penitenziario.

Questo è un passaggio fondamentale; questo è un passaggio di civiltà etica e giuridica.

Come è fondamentale, in virtù dei principi della nostra Carta Costituzionale, che il soggetto interessato non possa essere sottoposto a misure che vadano ad incidere sulla sua integrità psicofisica, o peggio siano degradanti o disumane.

La pena è un tempo nel quale lo Stato limita la libertà personale ma ha una funzione ben precisa: quella di rieducare il reo per ricondurlo nella società.

Fatta questa rapida, ma speriamo non inutile, disamina, parliamo di come in realtà sono tenute le carceri italiane attualmente.

Le case di reclusione sono tutte (o quasi) in una condizione di sovraffollamento e quindi in una situazione in cui il detenuto è in sofferenza e lo sono anche gli agenti di polizia penitenziaria.

 

Questo fatto determina che gli agenti penitenziari e le strutture che assistono i detenuti sono in forte difficoltà non tanto e non solo nel contenimento dei soggetti reclusi quanto nel consentire agli stessi l’esercizio di quei diritti ad essi riconosciuti che sono il cuore della rieducazione del reo.

Correndo il rischio di essere ripetitivi, vogliamo sfatare un diffuso luogo comune, secondo il quale i detenuti non avrebbero diritti.

I detenuti godono di tutti i diritti costituzionali garantiti ai cittadini, escluso quello della libertà di circolazione.

I detenuti godono altresì di tutti i diritti previsti dal diritto penitenziario e quindi possono godere di tutti quei benefici previsti in tema di riduzione dei tempi della pena, in ragione della buona condotta del reo.

In una situazione già difficile per l’affollamento oltre il numero consentito si è inserito da un lato l’insorgenza del coronavirus e dall’altro un’informazione martellante e decisamente contraddittoria come quella che si è avuta dal 20.02.2020.

Ovvio che un virus presentato dai mezzi di comunicazione come altamente trasmissibile, altamente pericoloso specie in chi ha (magari) altre patologie, altamente virulento in spazi ristretti e per questo necessitante di distanziamento sociale per eliminare i rischi di trasmissione, ha generato un comprensibile stato di confusione all’interno degli istituti di pena (in particolare in quelli più sovraffollati).

L’istituto di pena è per sua natura un luogo in cui le persone stanno molto a contatto e devono fidarsi le une delle altre; sì, fidarsi, intendendo di poter credere nelle persone con cui si condividono gli spazi, anche se può sembrare strano visto il luogo e le persone che lo abitano.

In realtà il carcere è il mondo di dentro, il mondo limitato, ma è in ogni caso vita e relazioni.

Un’informazione non precisa e puntuale ha portato i detenuti ad andare in fortissima agitazione.

Ad aggravare ciò il Governo – senza spiegare nulla – ha pensato bene di vietare i colloqui con i parenti.

Si badi bene che nella logica di evitare il contagio, la misura può essere considerata ineccepibile (sebbene non la migliore) ma in un contesto di mancanza di informazioni o di informazioni parziali e/o imprecise, il discorso cambia e parecchio; se poi si considera lo stato di sofferenza degli individui la miscela per ovvie ragioni diventa esplosiva.

I colloqui con i parenti sono la finestra sul mondo esterno, sono la normalità che entra in carcere, sono la vita di ogni giorno che penetra le mura del penitenziario.

Chiudere i colloqui (dicendo poco o niente) era inevitabile che fosse un comportamento altamente pericoloso.

La cella non è più un luogo di protezione ma viene percepita come un luogo in cui il detenuto è in pericolo, in balia di un virus e quindi in attesa della morte; lasciato lì a morire in perfetta solitudine e senza cure (non sarebbe mai accaduto ma la percezione dei detenuti deve essere stata verosimilmente questa).

I detenuti hanno percepito e, non poteva essere altrimenti, il vuoto attorno a loro; il vuoto umano e si sono sentiti come buttati nella pattumiera dalla società esterna, dalle persone libere.

In una situazione già esplosiva si è determinato quel corto circuito che ha generato le rivolte.

Molti hanno detto e scritto che le rivolte erano preordinate; personalmente non credo che così fosse ma semplicemente il sentimento di sgomento e di abbandono è stato generalizzato.

Purtroppo, le rivolte hanno procurato anche dei morti (tutti tra i detenuti) e delle devastazioni; oltre che delle evasioni di massa (come nel carcere di Foggia).

La realtà era che non evadevano per scappare ma per salvarsi.

Questo va capito, altrimenti si sfalsa tutto il ragionamento.

Ci si deve chiedere se tutto ciò potesse essere evitato.

Riterrei di si, in luoghi già per definizione a rischio, dove la comunicazione è grandemente limitata, a maggior ragione deve intervenire la prevenzione.

Si doveva informare prima e spiegare poi la portata delle misure che venivano adottate e dare una dimensione esatta al fenomeno.

L’incertezza rende gli uomini vulnerabili e pericolosi per loro stessi e per gli altri.

Si doveva rappresentare che lo stop ai colloqui era momentaneo e che poi sarebbero ripresi (come è successo) i colloqui protetti a tutela di tutti.

Necessario sarebbe stato un provvedimento “svuota carceri”, non una amnistia ma una misura che mettesse alla detenzione domiciliare tutti coloro che hanno un residuo pena di 3 anni (con il braccialetto elettronico) o inferiore e tutti coloro che hanno un residuo pena pari o inferiore ad anni 1 e mesi 6 senza altra misura di controllo (senza braccialetto elettronico).

Purtroppo, anche qui, tocchiamo un tasto dolente: i braccialetti non ci sono e non essendoci abbastanza questa ipotesi diventa non realistica e non attuabile.

Questa ipotesi avrebbe consentito di rendere le carceri molto più vivibili e quindi più in linea con uno spirito rieducativo della pena.

In un panorama di sovraffollamento, di detenuti per lo più stranieri e con patologie, il clima venutosi a creare con il virus non poteva che essere letale per tutti: detenuti, agenti e parenti dei detenuti.

La ragione storica di tutto ciò è però paradossalmente molto più semplice.

La situazione carceraria non è mai stata al centro di nessun programma di governo degli ultimi 30 anni; non è un argomento che raccoglie consensi se non utilizzato per un giustizialismo becero ed ignorante.

Vorrei fare riflettere su una cosa: l’immagine in questo senso aiuta.

Molti di voi avranno visto i video della fuga di massa dall’Istituto Penitenziario di Foggia, se si guardano con attenzione i detenuti che escono dalla porta principale, si può distintamente vedere il loro smarrimento.

E’ lo smarrimento della libertà conquistata illegalmente; sembrano gazzelle braccate da leoni più che persone libere (infatti non lo sono).

Ma attenzione, essi non sfuggono al carcere, alla pena, alle guardie o ad altro se non al virus che non hanno ma che ha colpito le loro menti e si chiama terrore.

La stragrande maggioranza è tornata in carcere, si è costituita e solo uno sparuto gruppo è stato ripreso qualche giorno dopo.

La libertà ottenuta con una evasione non è libertà ma promessa di una ulteriore carcerazione ma loro lo facevano per sottrarsi alla morte, non per sottrarsi alla pena.

Lo Stato deve prendersi cura effettiva dei detenuti perché una volta che costoro lasciano gli istituti e sono restituiti alla vita reale, devono essere soggetti integrati.

Occorre dunque una politica di contenimento nella prospettiva di un reinserimento altrimenti tali luoghi diventano solo centri di specializzazione del crimine e centri in cui il soggetto viene disumanizzato.

Articolo di Massimo Rossi


Massimo Rossi è avvocato penalista del foro di Siena.