“L’uomo dietro al Giudice antimafia”
Eccoci ancora assieme, dopo una lunga pausa, per concludere la storia del Giudice Caponnetto, Nonno Nino.
Come anticipato in chiusura del precedente articolo, dedicheremo questa edizione all’analisi della storia di Caponnetto dai momenti successivi alle stragi del 1992, cercando di immaginare la reazione di un uomo, prima che di un giudice, dinanzi la morte violenta di due amici prima ancora che colleghi.
Ho già speso più di una frase nel tentare di raccontare il legame che stringeva assieme i giudici del pool antimafia di Palermo, in un rapporto di intima vicinanza molto più che di semplice collaborazione professionale. Tenuto ben a mente questo, come raccontare del dolore del Giudice Caponnetto dopo gli attentati di Capaci e Via D’Amelio?
Spesso si pensa che la decisione di assumere un incarico di quella natura abbia avvicinato quegli uomini così tanto alla morte da averne accettato l’arrivo, quasi come se fosse un evento inevitabile.
Rimane tuttavia necessario ammettere che una cosa è l’aver messo in conto di veder terminare violentemente per mano mafiosa la propria esistenza, cosa che in molte interviste sembra essere ben forte negli animi e nei pensieri dei giudici del pool, ben altra è invece pensare che il dolore che da quelle morti scaturirà, sarà minore per il sol fatto di averla in qualche misura preventivata. Detto altrimenti, può la consapevolezza di ricoprire un incarico pericoloso togliere qualcosa alla sofferenza di veder i propri colleghi spirare sotto le bombe?
Ricordo in proposito un episodio che Nonno Nino era solito evocare spesso e che accadde all’ indomani dei funerali di Falcone. Caponnetto, al momento di rientrare in Toscana dopo le esequie, ricevette da Borsellino un abbraccio che lui stesso definì “così forte da fare male”. Scioltisi da quell’ultimo abbraccio Caponnetto salutò Borsellino, augurandosi di rivederlo presto, ed allora Borsellino pronunciò queste parole: “sei proprio sicuro Nino che ci rivedremo?”
Percepisco ancora adesso, dopo oramai tanti anni, il dolore di Nonno Nino nel raccontare questo episodio, nell’aver appena perso un collaboratore che per lui era quasi un figlio, ed al contempo nel sentire forte la paura per le sorti di Borsellino.
Per quanto sia difficile immaginarlo adesso, dobbiamo guardare al rapporto che legava Caponnetto a Falcone e Borsellino, ricordando da un lato la minore età dei due magistrati rispetto a Caponnetto, fatto che, oltre all’aver avuto quest’ultimo un ruolo sovraordinato rispetto ai due giudici uccisi, rendeva Caponnetto una figura quasi paterna nei loro confronti. Inoltre, è da tener a mente che, per quanto l’idea del pool antimafia fosse principiata dall’opera di Rocco Chinnici, sarà proprio Caponnetto a dar corpo a quella struttura e a chiamare a se Falcone, Borsellino, Di Lello e Guarnotta.
Immaginate allora lo strazio di un uomo che, selezionati i propri collaboratori, ne condivida il lavoro per più di quattro intensissimi anni per vederli poi cadere proprio a causa di quel lavoro. Come si può essere preparati a questo? Come si può pensare che la natura a rischio di un incarico o ancora lo spirito di servizio che animava quegli uomini (e fortunatamente ne anima ancora oggi molti altri), possa fungere da scudo al dolore dinanzi ad eventi così violenti?
Non esiste preparazione al dolore, neppure nelle migliori aule di formazione della Magistratura. Ecco perché appare così errato immaginare che la scelta di una professione pericolosa debba portare con se un minor dolore in caso di eventi tragici, quasi come se nella formazione del magistrato (o di qualsiasi altro mestiere che espone alla morte) vi fosse compresa la materia della gestione del dolore dinanzi la violenza più brutale.
Queste riflessioni fanno da cornice ad una vicenda che i mezzi di comunicazione dell’epoca misero in risalto, la frase di sconforto di Caponnetto dopo il 19 luglio 1992, quel “è finito tutto” pronunciato senza più forze, quasi aggrappandosi alla mano del cronista che porse il microfono al giudice. Quella frase scosse la opinione pubblica siciliana e italiana poiché si vide in quel momento vacillare un pilastro della lotta al crimine organizzato di tipo mafioso, si scorse la fragile natura umana celata dietro l’armatura del giurista, dell’uomo delle istituzioni.
Per molti fu proprio questo il senso da attribuire a quella esternazione, un momento di imperdonabile debolezza. Sarebbe bene invece ricostruire quella vicenda sotto una luce ben diversa, proprio al fine di demolire quella intima indole che ci spinge comodamente a relegare la lotta al crimine organizzato e, più in generale l’impegno verso traguardi eccezionali, a quelle sole figure che noi sopraeleviamo al ruolo di eroi, quasi ammantandoli di una forza e di un coraggio che non appartengono ai più, alla maggioranza.
Solo recuperando la loro dimensione umana, personale, prima ancora che professionale, possiamo capire che dinanzi al dolore per la perdita di amici fraterni non vi è alcuna barriera che possa essere opposta, alcun ruolo che possa essere speso. Il dolore è tale a prescindere dalla professione di chi lo vive, dalla scelta compiuta da chi vi si trova dinanzi.
Ecco perché le critiche mosse a Caponnetto per quella esternazione paiono errate, proprio perché muovono dal presupposto di una assenza di umana comprensione, persino di empatia, qualità che risultano invece essenziali non solo al bravo professionista, ma prima ancora al buon cittadino.
Sperando di non aver eccessivamente disatteso le vostre aspettative, vi do appuntamento al prossimo numero di Obiettivo Investigazione.
Fonti
Foto Antonino Caponnetto http://www.antoninocaponnetto.it/
Articolo di Dario Meini Caponnetto