Dalla leggenda dei cavalieri di “la Garduna” ai gabellotti siciliani

“È tutta una mafia”, o ancora; “tanto quelli sono ammafiati”. Quante volte ad ognuno di noi è capitato di sentire, o persino pronunciare, una frase del genere, magari presi da sconforto o rabbia nell’imbattersi in situazioni di clientelismo o cattivo funzionamento dell’apparato burocratico?

Ogni volta che sento una frase di questo tenore penso immancabilmente a quanto errata sia questa generalizzazione del fenomeno mafioso, a quanto sbagliata e dannosa sia la sua sovrapposizione a quello più genericamente illecito-criminale.

Questa rubrica nasce proprio da questa convinzione, cui si aggiunge la volontà di offrire, in questa e nelle prossime uscite, una panoramica generale del fenomeno mafioso, analizzandone la nascita e le origini storiche, i connotati giuridici essenziali, le vicende di cronaca più rilevanti, il suo radicamento nei territori di origine e non, i settori di azione e il volume di affari.

Accanto a ciò verranno trattate le esperienze più significative di contrasto alle mafie, un vero e proprio percorso attraverso la nostra penisola alla ricerca di realtà che nel tempo hanno costruito veri e propri presidi di antimafia, di lotta attiva al fenomeno mafioso.

Per amor di verità è doveroso precisare che, data la ampiezza sia temporale che territoriale di ciò che tratteremo, verranno per necessità raccontate alcune organizzazioni a scapito di altre, cosi come alcune vicende storiche, seppur rilevanti, non formeranno oggetto di queste pagine. Allo stesso modo sarà impossibile trattare con completezza ogni manifestazione della realtà antimafia e ne verrà dunque offerta una panoramica parziale, nella speranza e convinzione di scegliere per i lettori le esperienze più significative.

La datazione della nascita, sul suolo italiano, delle organizzazioni criminali di tipo mafioso è ancora oggi tutt’altro che certa. Nel ripercorrerla merita attenzione una leggenda che da tempo circola riguardo la genesi delle mafie italiane. Si racconta che nel 1412 tre cavalieri de “la Garduna”, una organizzazione cavalleresca spagnola, per espiare un delitto di sangue furono rinchiusi nelle prigioni dell’isola di Favignana, che al tempo era di appartenenza aragonese. Questi tre fratelli, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, rimasero sull’ isola per quasi trenta anni, e da lì scrissero le regole e i principi di alcune tra le mafie che oggi conosciamo. Si racconta che Osso fece voto a Gesù Cristo e rimase in Sicilia, fondando la futura Cosa Nostra, Mastrosso fece voto a San Michele Arcangelo, il portatore di spadino e bilancia, e si diresse in Calabria dove creò la ’Ndrangheta, mentre Carcagnosso fece voto a San Pietro, il possessore delle chiavi, e approdò in Campania, dove diede vita alla Camorra.

Questa storiella di finzione è di grande importanza perché ci permette fin da subito di comprendere che la sua fortuna nel tempo è dovuta alla attenzione che le mafie rivolgono alla costruzione di una loro genesi “nobile”, quasi religiosa. L’attaccamento, seppur disatteso dai fatti, a valori cristiani, di riscatto, onore e giustizia, è una costante delle organizzazioni mafiose, ed a riprova di ciò basti pensare a quelle espressioni come “Onorata società; uomini d’onore”, o ancora ad alcuni riti di affiliazione che prevedono il giuramento nelle mani di una immagine sacra.

La realtà, come spesso accade, è ben più terrena. Le origini, almeno in merito alle mafie siciliane, affondano le proprie radici nel secondo ottocento, tempo di speranze e di cambiamento connesse all’unità del Regno. È in questi anni che si affaccia la figura del gabellotto, vero e proprio mediatore tra il proprietario terriero e le famiglie contadine che ne coltivavano i latifondi. Ben presto questi uomini persero il ruolo di semplici mediatori e raggiunsero un potere persino maggiore dei proprietari di cui inizialmente erano chiamati a fare gli interessi. Violenza diffusa, intimidazioni, omicidi come pratiche di assoggettamento, questi furono i caratteri che permisero ai gabellotti di imporre il proprio potere sia sui contadini che sui latifondisti. Una delle pratiche che garantirono un ruolo di primo piano alle mafie siciliane, fu il furto e poi la vendita di limoni e arance, settore nel quale arrivarono ad avere un vero e proprio monopolio negli anni. Quegli uomini che i grandi proprietari terrieri chiamarono a sé per contenere le rivendicazioni dei contadini, nel tempo si imposero come padroni di quegli stessi terreni, grazie ad una ferocia sistematica e al disinteresse della forza pubblica, altro elemento che garantì a queste organizzazioni il proliferare vertiginoso e senza significativi ostacoli.

Come si è passati dal furto di limoni ad organizzazioni radicate in tutto il mondo?  Le mafie portano davvero ricchezza e lavoro? Queste ed altre risposte nei prossimi numeri della rivista Obiettivo Investigazione.

Articolo di Dario Meini Caponnetto