“La grafologia come tecnica di possibile riabilitazione per i detenuti”
La situazione particolarissima che sta vivendo il mondo intero, ripropone in ambito nazionale, tra le altre problematiche, la condizione delle carceri, situazione annosa e mai risolta. Perché è ovvio, a mio modesto avviso, che non si risolve concedendo amnestie ogni tanto, né migliorando la condizione dei detenuti. Non voglio essere fraintesa: non voglio dire che queste misure non vadano prese, ma voglio dire che il problema è a monte e che quindi “rattoppare” un tessuto logoro, metafora di biblica memoria, non risolve il problema, anzi è solo buonismo spicciolo di chi non vuole essere radicale nella risoluzione dei problemi alla loro fonte.
La riflessione che segue nasce, da una parte, dalla condizione a cui siamo tutti sottoposti e cioè quella di dover stare “reclusi” in casa; dall’altra dall’esperienza che sto portando avanti nel carcere della mia città in qualità di grafologa.
Al progetto partecipano, su base volontaria, circa venti detenute, condannate per associazione a delinquere di stampo mafioso, con pene che partono da un minimo di nove anni per arrivare a venti anni; l’età delle detenute varia dai 47 ai 63 anni, il titolo di studio conseguito è la licenza elementare, cinque signore hanno conseguito la licenza media e solo due, quelle più giovani di età, hanno conseguito il diploma di scuola secondaria di secondo grado. Tutte sono coniugate con un minimo di tre figli e sono già nonne; l’età dei nipoti è compresa tra i 4 e i 15 anni. La loro occupazione prima dell’arresto era prendersi cura della casa e della famiglia.
Da quanto sopra esposto emergono i seguenti dati oggettivi:
- basso livello di istruzione
- maternità precoce
- nonne in età precoce
- casalinghe
Quando si “raccontano”, le signore parlano di sè stesse come mamme e nonne che soffrono immensamente la mancanza della famiglia, come persone normali e tutto sommato felici a parte la condizione attuale, che stanno scontando una pena “ingiusta” e che sono recluse per troppo amore nei confronti della famiglia.
Dall’analisi delle singole grafie, emergono particolarità interessanti, in quanto comuni a tutte le grafie: carente capacità di ragionamento, scarsa capacità di relazionarsi con la realtà, mancanza di creatività, intesa come capacità di trovare soluzioni innovative rispetto alle problematiche sia semplici e quotidiane che più complesse. Queste caratteristiche emerse longitudinalmente in tutte le grafie mi ha lasciata molto perplessa. Sarebbe interessante avere delle grafie precedenti alla carcerazione per vedere se, in particolare la seconda caratteristica, fosse emersa per “addolcire” una situazione di forte stress quale è la detenzione.
All’atto della restituzione delle grafie, ovviamente avvenuto singolarmente, emerge ancora un altro aspetto della realtà: a fronte di un’iniziale proclamazione di normalità e di amore che caratterizza la loro vita familiare, emerge invece che la maggior parte ha il marito recluso in altro carcere al 41bis, così dicasi di figli, figlie, sorelle e/o cognati, generi e quant’altro. Riferiscono che i parenti hanno in effetti commesso qualche reato, mentre loro continuano a dire che sono recluse per troppo amore per il marito e i figli.
C’è da chiedersi se a questa “favoletta” credano veramente o se la raccontino per una sorta di giustificazione.
Nessuna grafia ha evidenziato una scarsa capacità intellettiva, ma le buone doti sortite da natura, non hanno avuto modo di svilupparsi nel modo giusto. Basso livello di istruzione, modello familiare in cui il ruolo della donna è già stabilito e che prevede matrimonio precoce, figli in età precoce e tale modello viene tramandato, tant’è che anche i figli a loro volta si sposano e diventano genitori precocemente rispetto alla media nazionale.
Quello che emerge è che la capacità di ragionamento, di critica e di visione oggettiva della realtà di queste donne è stata anestetizzata da una famiglia disfunzionale, da un uso o, meglio, da un abuso della parola amore intesa come accettazione di una condizione di subordine a ciò che il padre e poi il marito decidono, invece che accompagnamento allo sviluppo delle proprie potenzialità e inclinazioni.
Non voglio dire che il ruolo della donna sia solo quello di subire le decisioni della parte maschile della famiglia perché, in conclusione, sono proprio le donne che trasmettono ai figli questo modello disfunzionale di famiglia. Dico, però, che anche lì dove si è tentato di insinuare il dubbio che questo tipo di famiglia non funzioni perché danneggia proprio quei figli che loro tanto amano, a queste donne, manca di fatto, la possibilità di emanciparsi da tale situazione perché prive della possibilità di mantenersi economicamente.
Come se ne potrebbe uscire per evitare che, scontata la pena, ritornino tranquillamente a delinquere?
Personalmente credo che la prima cosa sia la cultura intesa, non come titolo di studio – molto spesso dietro un diploma o addirittura dietro una laurea non c’è cultura-, ma cultura come capacità di leggere e capire la realtà senza il filtro di qualcun’altro è sicuramente un’arma che le istituzioni potrebbero utilizzare poiché, citando una vecchia canzone di Masini: “l’ignoranza è la peggiore malattia”, tenendo conto che il significato di ignoranza è, come da biblica memoria, la “mancanza di conoscenza”.
La seconda cosa che si potrebbe tentare di fare – ed in alcune realtà già si fa – basandosi sugli strumenti del volontariato, è quella di dare alle persone gli strumenti per potersi mantenere ed evitare quindi di diventare, a causa della necessità, facile preda dei sistemi mafiosi e delinquenziali in generale.
La terza cosa, ovviamente non in ordine di importanza, è ridare dignità all’essere
umano anche attraverso la consapevolezza che il rispetto per se stessi e per gli altri passa attraverso il rispetto delle regole, insegnare a capire che le regole non sono divieti, ma semplicemente limiti per poter vivere insieme senza caos.
In conclusione la riflessione che è emersa dall’esperienza in essere mi porta a concludere che si deve puntare molto sulla scuola, ma che allo stesso tempo la scuola deve essere ripensata e ridisegnata.
La grafologia in questo ambito, ma non solo, ha il compito di aiutare le detenute a riflettere su se stesse, a far emergere lati di se stesse che non volevano vedere o che non conoscevano, a risvegliare tutte quelle capacità e tendenze che non hanno potuto sviluppare per “ripensarsi” in modo diverso.
Questo progetto, che conto di riprendere non appena sarà finita l’emergenza sanitaria, avrà sortito qualche effetto se avrà dato, anche ad una sola signora, una volta scontata la pena, la possibilità di poter scegliere o una vita diversa da quella che la famiglia ha scelto per lei oppure “scegliere di non scegliere” e tornare da dove era partita.
Articolo di Paola Gnasso
Paola Gnasso è docente di Grafologa Forense presso corsi e master universitari. Riveste il ruolo di CTU e CTP.